domenica 31 maggio 2015

Siamo noi giovani il Giovanni di domani

La prima volta che ho “conosciuto” Giovanni Falcone è stato grazie a un libro dello scrittore e giornalista Luigi Garlando. Pubblicato nel 2004, “Per questo mi chiamo Giovanni” è la storia di un bambino di Palermo che il giorno del suo compleanno scopre la vita e le gesta del celebre personaggio di cui porta il nome, assassinato perché osò ribellarsi e affrontare un mostro spietato di nome Mafia. 
Giovanni e suo papà Luigi saltano in macchina e incominciano un viaggio attraverso i luoghi chiave della vita e della morte di Falcone: dalla lapide commemorativa posta davanti alla casa natale del magistrato, all’uscita dell’autostrada per Capaci dove venne ucciso, fino ad arrivare in via Notarbartolo, dove oggi c’è l’Albero Falcone, tappezzato di messaggi e dediche.
Giovanni Falcone nacque il 18 maggio 1939 a Palermo, nel quartiere della Kalsa, in via Castrofilippo 1. Fin da bambino sembrava già pronto a combattere per difendere la pace, come testimoniano i parenti che lo videro nascere senza piangere tenendo i pugni stretti, proprio quando da una finestra entrò una colomba bianca. Eccellente studioso, concluse il liceo con il massimo dei voti e in seguito si trasferì a Livorno per frequentare l’Accademia navale. 
Giovanni Falcone allievo dell'Accademia navale di Livorno
Sebbene in poco tempo fosse stato assegnato allo Stato Maggiore per le sue attitudini al comando, successivamente tornò a casa e, seguendo l’esempio della sorella Maria, decise di “arruolarsi” nella Facoltà di Giurisprudenza all’Università degli Studi di Palermo. Nel 1961 si laureò con 110 e lode e tre anni dopo iniziò la sua carriera di magistrato a Trapani. 
Il primo vero impatto con il “mostro”, Falcone lo ebbe proprio in un processo contro le cosche del Trapanese, caso raro di attività di contrasto alla mafia. Leader del gruppo di criminali alla sbarra era Don Mariano Licari. Anni dopo, in un’intervista rilasciata dal magistrato, disse di lui:<< Mi imbattei in un boss di rango. Era Mariano Licari, un patriarca trapanese. Lo vidi in dibattimento, in Corte d’Assise. Era sufficiente osservare come si muoveva per intravedere subito il suo spessore di patriarca>>. Il processo contro Licari naufragò, ma quella battaglia servì da lezione al giovane magistrato, il quale successivamente si ingegnò per trovare prove più schiaccianti per incastrare i boss, ad esempio verificando gli accertamenti patrimoniali sulla loro consistenza economica e sulla provenienza di tanta ricchezza. 
Nel luglio del 1978 Falcone chiese il trasferimento a Palermo e incominciò a lavorare nella sezione fallimentare del tribunale. In quello stesso anno sua moglie Rita lo lasciò e tornò a Trapani, dove si era innamorata del presidente del tribunale della città.
Successivamente, Giovanni accettò l’offerta del magistrato Rocco Chinnici di passare nell’Ufficio Istruzione della sezione penale. A completare l’abbozzo del celeberrimo pool antimafia che si sarebbe formato di lì a pochi anni arrivò anche Paolo Borsellino, il quale divenne presto il miglior collaboratore e amico di Falcone.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
L’intuizione di Giovanni ai tempi dell’esperienza trapanese di indagare nei patrimoni dei boss si rivelò fondamentale per le prime inchieste ai danni dei criminali locali, i quali riciclavano il denaro sporco in imprese edili, come faceva Rosario Spatola, costruttore incensurato e molto rispettato perché dava lavoro a centinaia di operai. Come un cane da tartufo, Falcone scoprì la fonte dei loro guadagni, aprendo una finestra sull’immensa organizzazione di capitali di Cosa Nostra. Svelò gli stretti legami tra la mafia siciliana e quella americana che all’epoca gestiva il traffico di stupefacenti. Dopo l’omicidio di Gaetano Costa, procuratore capo di Palermo, anche a Falcone fu affidata la scorta.
Nel dicembre del 1980 approdò per la prima volta a New York, dove venne accolto con grande entusiasmo dai colleghi della Dea e dell’FBI, i quali stringono accordi e collaborazioni con il magistrato.
In seguito agli omicidi di due stretti collaboratori di Falcone e Borsellino, i due magistrati e le rispettive famiglie vennero internati nel carcere dell’Asinara per motivi di sicurezza, dove però non si perdono d’animo e iniziano a preparare l’istruttoria dello storico Maxiprocesso di Palermo, avvenuto tra il 1986 e il 1987. Importantissima per il processo fu la collaborazione del pentito Tommaso Buscetta, attraverso la quale i magistrati conobbero fino in fondo il sistema mafioso, ma non scoprirono mai i legami politici con la mafia, poiché secondo il pentito lo Stato non era ancora pronto. 
Tommaso Buscetta al Maxiprocesso
La sentenza inflisse 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare, segnando un grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool antimafia.
<<Grande Falcone! È meglio di un supereroe americano!>> esulta Giovanni.
<<Giovanni è un uomo normale che per vincere ha dovuto rintanarsi come un topo, nuotare di notte da solo in piscina, sposarsi come un ladro, rinunciare al cinema, al ristorante. E forse anche a una mamma.>> risponde papà Luigi.
Il gippone di Luigi si ferma in una rientranza dietro al guard rail sull’autostrada A29 nei pressi dello svincolo di Capaci. Sullo stradone si affaccia un grosso monumento di colore arancione sul quale vi sono incisi i cinque nomi delle persone che il 23 maggio 1992 vennero fatte saltare in aria da cinque quintali di tritolo posti in un cunicolo al di sotto della strada.
La strage di Capaci e il monumento in memoria ai caduti
Dopo avergli spiegato le dinamiche dell’Attentatuni, Luigi racconta al figlio:
<<Ero l’uomo più felice del mondo nel giorno più brutto per Palermo, che aveva perso il suo uomo migliore. Quell’uomo era morto anche per me, per difendere i miei negozi, la mia casa, la mia città. Per lottare contro il mostro al mio posto aveva rinunciato ad avere un figlio, cioè alla gioia più grande che si possa provare sulla terra.>>
<<Per questo papà mi chiamo Giovanni?>>
<<Sì, per questo ti chiami Giovanni.>>
 Per concludere, vorrei lasciarvi con una mia poesia: 


Fioriscono sull’Albero di Falcone,
frasi stupende, impronte di mani.
Scopro infine le mie di parole:
siamo noi giovani il Giovanni di domani
Leonardo Capobianco
 

domenica 26 aprile 2015

Non plus ultra - il folle volo di Ulisse

Impedire a un uomo di oltrepassare un confine è come stuzzicare la sua curiosità, sfidarlo a conoscere ciò che non conosce. Se poi quell’uomo si chiama Ulisse, fermarlo è ancora più difficile. 
Dal Medioevo ai giorni nostri, la figura dell’eroe più conosciuto e amato dei Classici è stata oggetto di interpretazioni da parte dei più grandi letterati come Dante Alighieri, il cui celebre incontro con Ulisse è descritto nel Canto XXVI della Divina Commedia.
Qualche millennio prima che il sommo poeta condannasse il re itacese all’Inferno, un ragazzaccio di nome Ercole si apprestava a rubare i bellissimi buoi di un certo Gerione, gigante con sei braccia e tre teste. Prima di incontrare il mostro, il semidio raggiunse lo stretto di mare tra Calpe e Abila, oggi conosciuto come lo Stretto di Gibilterra. Oltre quel confine i mortali non potevano andare. Così, per evitare incomprensioni, Ercole eresse due colonne molto alte, sulle quali vi incise la scritta: “non plus ultra”. Soddisfatto del suo operato, Ercole decretò che nessuno vi sarebbe andato oltre. 
Qualche tempo dopo, le previsioni di Ercole si rivelarono esatte e Nessuno vi andò oltre.
Tornato da una vacanza al mare durata vent’anni, Ulisse, il re di Itaca, non aveva alcuna intenzione di dedicarsi a una vita di tutto riposo in compagnia della moglie Penelope e del figlio Telemaco. Dopo aver ucciso i Proci, i principi che avevano cercato di soffiargli il trono durante la sua assenza, l’eroe dal multiforme ingegno si fa protagonista di un ultimo intrigante viaggio. Prima di partire, però, l'indovino Tiresia predice a Ulisse una morte “Ex alos”, che significa “dal mare” o “lontano dal mare”. Un’ambiguità che nei secoli successivi giovò ai più grandi poeti, scrittori e amanti della letteratura classica, che poterono spaziare con la loro fantasia immaginando la possibile morte del mitico eroe. Una delle interpretazioni più famose è certamente quella di Dante Alighieri, il quale riporta la sua versione dei fatti per bocca di Ulisse stesso, condannato nell’Ottava bolgia dell’Inferno. 

Quando

mi diparti' da Circe, che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,

vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;


Ulisse, avvolto da una lingua di fuoco, comincia a raccontare le sue disavventure dopo che ebbe lasciato Circe. Nonostante l'amore e l'affetto che egli provava per i suoi cari, decise di proseguire il suo viaggio alla scoperta di nuovi orizzonti, risultando un vero e proprio “lussurioso” del sapere, perciò condannato da Dante. Eppure, paragonando l’eroe omerico al poeta, i due protagonisti delle opere più famose della letteratura assumono delle caratteristiche estremamente simili. Entrambi sono esiliati dalla loro patria, Dante a causa di un conflitto politico e Ulisse perché è perennemente in alto mare. Inoltre, tutti e due amano avventurarsi alla scoperta dell’animo umano: Odisseo esplorando nuove terre e conoscendo nuovi popoli, il poeta fiorentino compiendo il suo viaggio immaginario nei tre regni dell'aldilà.
“O frati," dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza"

In queste terzine, Ulisse si rivolge ai suoi compagni di viaggio con il suo celebre discorso sulla virtù e la conoscenza, per le quali gli uomini sono portati a vivere. Oltre a sfoggiare la sua retorica per convincere la ciurma a seguirlo, l’eroe omerico incarna l’ideale dell’uomo assetato di conoscenza, pronto ad ogni rischio per il puro piacere della scoperta. 
Se il Dante del Trecento condannava chi, come Ulisse, faticava a contenere la propria aspirazione a conoscere, credo che il Dante di oggi condannerebbe gli uomini e le donne chiusi nelle loro idee e mentalità, frutto dell’inezia che li caratterizza. 
Se l’Ulisse di Omero combatteva contro mostri di ogni genere per tornare in patria, l’Odisseo del duemila troverebbe molte più difficoltà per sconfiggerli, ma soprattutto per riconoscerli. I mostri contro cui si batteva Ercole erano così brutti che era quasi impossibile non spaventarsi. Difatti, la loro colpa era proprio mostrarsi agli umani. I mostri di oggi, invece, sono coloro che hanno paura e scappano dai “diversi”. Ormai delle colonne d’Ercole odierne sarebbero superflue: le barriere ideologiche sono di gran lunga le più possenti. 

e volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

Se per conoscere bisogna essere folli, per non conoscere bisogna esserlo ancora di più.
L.C.

domenica 12 aprile 2015

Take me to Love

Forse non è l’amore ad essere cieco, come sosteneva Shakespeare, bensì gli uomini che non lo sanno riconoscere. L’amore come lo conosciamo oggi, infatti, deriva dalla concezione imposta dal Cristianesimo, secondo cui l’amore è strettamente finalizzato alla procreazione. Per questo motivo, qualsiasi forma di amore “inutile”, ovvero che non permette all’uomo di riprodursi, venne considerata impura e ancora oggi malvista.
Take Me to Church” è una delle hit del momento, scritta e interpretata dall’irlandese Andrew Hozier.
       

Oltre ad aver raggiunto il successo mondiale (100 milioni di ascolti su Spotify e altrettante visualizzazioni su YouTube), la canzone ha saputo dare la giusta interpretazione a un tema assai delicato di questi tempi: la lotta contro le discriminazioni omofobe. “Credo che sia importante affermare ciò che riteniamo giusto, anche se a volte non è facile”, ha dichiarato Hozier in un’intervista. Un inno alla tolleranza e al rispetto che di questi tempi sono stati spazzati via dalle tante mentalità estremiste presenti nel mondo. Sì: “di questi tempi” credo sia una collocazione adeguata al fenomeno. Per una volta, noi “uomini del 2000” possiamo vantarci di essere ideologicamente più arretrati delle popolazioni precristiane.
Sono passati quarantadue anni da quando la APA (American Physical Association) ha riconosciuto che l’omosessualità non è una patologia psichiatrica come si credeva. 

Questa grande “scoperta” era già stata fatta dagli antichi greci e romani, i quali erano del tutto aperti a qualsiasi orientamento sessuale. In realtà, all’epoca, l’identità di genere non esisteva affatto. Allora non ci si doveva vergognare di rivelare la propria vera natura ai famigliari e amici, tantomeno di dover ricorrere agli psicologi. La pederastia, ovvero la relazione (non per forza amorosa) tra un adulto e un ragazzo, era all’ordine del giorno. Non si pensi all’antica Grecia come a una terra di pedofili a briglie sciolte! Innanzitutto, gli adulti, gli erastai, potevano corteggiare solo ragazzi adolescenti, quindi dai dodici anni in su. Inoltre, attraverso questa relazione, l’eromenos, ovvero il ragazzo, si arricchiva degli insegnamenti ricevuti dall’erastes, che comprendevano il senso civico, la cultura e l’amore. In cambio, il ragazzo si concedeva all’adulto finché, raggiunta la maggiore età, sarebbe diventato un erastes anche lui.
Più che l’antichità mi sembra di descrivere un mondo ideale, in cui non ci si deve nascondere perché diversi, perché innamorati. Sebbene nel corso dei secoli gli uomini si siano gradualmente discostati ideologicamente dalle Sacre Scritture, il diciottesimo versetto del Levitico sembra andare ancora oggi di moda: “Non avrai con maschio relazioni come si hanno con donna: è abominio”. E fu così che gli omosessuali, che sono i primi a voler amare il loro prossimo come si deve, vennero condannati dal Cristianesimo.
Al Museo del Louvre è conservato un bellissimo vaso di epoca greca, raffigurante un uomo che bacia un ragazzo, probabilmente un suo discepolo.

A guardarlo oggi, attraverso la mentalità chiusa ancora molto diffusa, il vaso rappresenta la classica scena di cui molto spesso oggi sentiamo parlare: un pedofilo che abusa di un minore. Dieci anni di carcere e numerose sedute psichiatriche. Nell’ottica degli antichi greci, invece, attraverso quel bacio, l’erastes vuole trasmettere i suoi insegnamenti e le sue conoscenze al giovane uomo, il quale in cambio gli permette di assaporare la dolcezza della giovinezza perduta. 
Nel video di “Take Me to Church”, diretto da Brendan Canty, viene raccontata la storia d’amore di due ragazzi omosessuali, perseguitati da uno dei tanti gruppi omofobi presenti in Russia. Interamente girato in bianco e nero, il cortometraggio trasmette un messaggio universale: l’amore non ha colore né un’identità precisa. 
Si racconta che Gerone, il tiranno di Siracusa, innamoratosi del giovane Dailoco, commentò il fatto dicendo semplicemente: “È naturale che mi piaccia ciò che è bello”. Se l’amore è bello, ed è bello ciò che piace, perché ciò che piace non può essere amore?
L.C.

domenica 29 marzo 2015

Duello all’ultimo bottone

Il giovane sguainò la spada nell’attimo in cui il rombo di un tuono squarciò il cielo stellato di Amburgo. Gli occhi del suo avversario scintillarono nel buio, rivelando un misto d’invidia e di odio nei confronti del suo amico e rivale. Tra i tanti curiosi radunatisi attorno alla piazza del mercato girava voce che Johann Mattheson e Georg Händel, durante l’esecuzione dell’opera “Cleopatra”, si fossero azzuffati in teatro per decidere chi avesse dovuto suonare il clavicembalo. 

Georg sentiva la guancia pulsare per lo schiaffo ricevuto poco prima dal suo maestro. Se egli non lo avesse umiliato in tal modo, forse non sarebbero arrivati a tanto. Nel mentre, Mattheson s’immaginava già che da quella vicenda oltraggiosa sarebbe scaturito certamente un danno alla sua carriera. Eppure, giammai si sarebbe lasciato umiliare dai capricci di un suo alunno e collega: l’opera era sua e sue erano le direttive, pertanto aveva tutto il diritto di imporsi come e quando voleva, soprattutto sui suoi allievi. Malgrado tutto, il finale burrascoso dell’opera aveva in qualche modo salvato i musicisti, camuffando il disastro in successo. 
La folla gremiva la piazza del mercato in attesa dell’inizio dello scontro. Si percepiva nell’aria l’inimicizia che legava i due contendenti. Un silenzio generale avvolse l’insolito palcoscenico su cui si esibivano i due duellanti. D’un tratto un violento acquazzone calò il sipario sulla scena, facendo scappare quasi tutti gli spettatori. Mattheson colse al volo l’occasione e si avventò sul giovane ancora frastornato dall’improvviso dileguarsi della folla. Georg schivò il colpo tentato dal suo maestro ondeggiando sul posto, e per tutta risposta gli restituì lo schiaffo di prima. Un lampo d’ira incendiò lo sguardo di Mattheson, che indietreggiò per ricomporsi dopo il colpo subito. L’allievo non perse tempo e lo spintonò ancora, facendogli perdere l’equilibrio. Vittorioso, ripose la spada nel fodero sotto la giubba, aspettando che il suo avversario si rialzasse. Ma con un agile movimento, Mattheson scattò in aria e colpì il disarmato Georg all’altezza del cuore.
 Lo sguardo accanito del maestro si placò di colpo. Il ragazzo ingoiò un urlo e ascoltò il suono che mai avrebbe dimenticato in tutta la sua vita: lo spezzarsi della lama contro un bottone della sua giubba. La spada s’infranse assieme alla rivalità dei due compositori, che tornarono amici. 

Un duello passionale e leggendario, che vide due uomini battersi per ciò che più di tutto amavano: la musica.
L.C.

domenica 22 marzo 2015

La Venere di Petrarca

La dea è sospinta dal soffio di Zefiro, personificazione dei venti, al quale si aggrappa Clori: i due hanno il compito di spingerla a riva. Alla sinistra di Venere, l’ancella Ora si appresta a porgerle una veste ricamata. 

Sandro Botticelli, nella Nascita di Venere, non si limita a ritrarre l’apparizione della dea, ma include diversi indizi pittorici dai quali si possono trarre le conclusioni più sorprendenti. L’opera, infatti, se letta in chiave allegorica, appare ancora più enigmatica. 
I capelli scompigliati dal vento, lo sguardo pietoso e sfuggente al tempo stesso, la carnagione chiara e luminosa: l’immagine della dea sembra riesumare la figura di Laura, la donna della quale si innamorò il poeta Francesco Petrarca, descritta similmente nel sonetto “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi”.


Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;

e ’l viso di pietosi color’ farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i’ che l’esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi?

Non era l’andar suo cosa mortale,
ma d’angelica forma; e le parole
sonavan altro che, pur voce umana;

uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch’i' vidi: e se non fosse or tale,
piagha per allentar d’arco non sana

Nel sonetto, Petrarca ricorda il primo incontro con Laura, avvenuto molti anni prima. Sebbene la sua bellezza sia ormai sfiorita, il poeta non ha mai smesso di amarla, poiché l’immagine della donna è scolpita nella sua memoria. Laura è una figura idealizzata solo nei ricordi, per il resto è umana come le altre donne. Ed è proprio su questo concetto che il poeta ci fa riflettere: l’amore è eterno se l’anima della persona che amiamo sopravvive nella memoria. Come Petrarca avvolge il ricordo di Laura con dolci parole amorose, così l’ancella Ora cerca di coprire la bellezza prorompente della dea con una veste di un colore rosso come la passione.
L.C.

lunedì 2 marzo 2015

Gli arringatori

Nel 1566, sulle rive del Lago Trasimeno, fu rinvenuta una scultura etrusca di epoca romana, la cosiddetta statua dell’Arringatore. Aule Metello era un senatore romano del I secolo a.C., qui rappresentato nell’atto di richiamare l’attenzione della folla con il braccio destro proteso in avanti. 
Una figura millenaria e immortale, quella dell'arringatore, interpretata dai più importanti capi di stato della storia come Adolf Hitler, fino ad arrivare ai leader delle rivolte di classe come Martin Luther King. Sebbene di ideali diametralmente opposti, i due personaggi riuscirono entrambi a intrattenere le folle con i loro discorsi e a condizionarne la mentalità. Entrambi divennero leader di un popolo, animati da un sogno e morti con questo. Due icone del novecento che segnarono profondamente il cammino della civiltà. Sia in vita sia dopo la morte.


Il Novecento può essere considerato un secolo ancora più rivoluzionario dei precedenti, poiché ci fu un cambiamento drastico nel modo di pensare della gente.

Come riuscì un imbianchino pazzo a scatenare il più grande conflitto della storia? Con quali armi un leader della non violenza liberò un intero popolo dalla discriminazione razziale? 
Oltre alla grande capacità oratoria che li caratterizzava, Hitler e King sapevano creare un legame unico con la folla. La loro non era solo un'abilità divulgativa efficiente, bensì un sesto senso della comunicazione, che gli permetteva di intuire e di conoscere gli stati d'animo della gente. Ma soprattutto, i due oratori tennero fede a una gestualità primordiale, coniata millenni prima della propaganda e del Black Power.
Lo sguardo dell’arringatore è mite e autorevole allo stesso tempo, adatto a sostenere la veemenza della folla. La posa è fiera ed elegante, non superba come quella di un sovrano, ma nemmeno troppo umile come quella di un plebeo. Il busto dell’uomo è piegato leggermente in avanti, come se volesse raccogliere gli sguardi dei suoi interlocutori, e trascinarli in salvo con le sue parole.
L.C.

domenica 15 febbraio 2015

La disïata vostra forma vera

“Movesi il vecchierel canuto et bianco” è una delle poesie più emblematiche della letteratura italiana. Una poesia “viva”, in cui traspare perfettamente l’animo affranto e tormentato del poeta: Francesco Petrarca. 
Definito il padre della lirica moderna, l’autore del Canzoniere è stato anche un profondo conoscitore dell’animo umano, anticipando l’avvento della psicologia e della sociologia. Animato dal desiderio di scoprire se stesso, Petrarca mise a nudo le sue emozioni, descrivendone l’unicità folgorante.

In questo sonetto, il sedicesimo della raccolta, il poeta si paragona a un vecchio canuto, che, ormai in fin di vita, decide di intraprendere il fatidico viaggio a Roma, per contemplare la Veronica, il velo che asciugò il volto di Cristo poco prima della crocifissione.
Movesi il vecchierel canuto et biancho
del dolce loco ov’à sua età fornita
et da la famigliuola sbigottita
che vede il caro padre venir manco;

indi trahendo poi l’antiquo fianco
per l’extreme giornate di sua vita,
quanto piú pò, col buon voler s’aita,
rotto dagli anni, et dal camino stanco;

et viene a Roma, seguendo ’l desio,
per mirar la sembianza di colui
ch’ancor lassú nel ciel vedere spera:

cosí, lasso, talor vo cerchand’io,
donna, quanto è possibile, in altrui
la disïata vostra forma vera


La poesia si apre con il ritmo di una filastrocca, quasi una parodia del fenomeno del pellegrinaggio, molto in voga ai tempi di Petrarca. Un arzillo vecchietto lascia la sua famiglia di punto in bianco per andare a omaggiare una reliquia conservata a Roma. Nella seconda quartina il poeta analizza le conseguenze di questo viaggio avventuroso, evidenziandone le difficoltà. Inconsciamente, il lettore fiuta il paragone dell’autore: il vecchio è Petrarca, il quale nel suo viaggio alla ricerca di Laura si imbatte in numerose difficoltà, sebbene egli sia giovane e forte quando scrive la poesia. Ma il poeta volge subito la nostra attenzione in un’altra direzione. Nella strofa seguente, infatti, si intravede il vero scopo del viaggio: Roma. Il vecchio arriva a Roma per vedere con i suoi occhi una traccia di Gesù, una prova della sua esistenza. Eppure, come vuole alludere il poeta, Dio è in noi, non dentro le cose. Così come una semplice reliquia non può rappresentare Cristo, così l'amore che Petrarca prova per Laura non si può trovare nascosto negli occhi di un'altra donna. 

L.C.

giovedì 5 febbraio 2015

Le nostre asce

“Un libro deve essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi.” Ecco il pensiero di Franz Kafka sulla lettura.
E alla fine è vero. 

I libri ci sconvolgono, ci cambiano, ci modellano. Ogni tipo di libro, di qualsiasi argomento, di qualsiasi genere, di qualsiasi autore, è un capolavoro di bellezza inimitabile. E ogni libro ci dà qualcosa di diverso a seconda dell’età e delle condizioni in cui lo leggiamo. Un insegnamento, un consiglio prezioso, un aiuto, un’interpretazione corretta di una situazione.
I libri sono compagni di vita sempre a portata di “tasca”, amici che non ti potranno mai tradire. Non ti abbandonano mai. Quieti e calmi aspettano solo di essere vissuti.
I libri sono chiavi che aprono le porte del mondo, passepartout che ci fanno accedere alle porte del cuore degli altri. 

Sono delle corde a cui noi ci leghiamo ben stretti dal momento in cui apriamo la copertina e ci tuffiamo nel mare di emozioni che ci offre. Perché un libro offre emozioni da condividere tramite le parole, quando l’inchiostro graffia la carta di emozioni. Emozioni che trovano il loro culmine solo nel finale, in un tripudio di gioia euforica o di tristezza lancinante. 
Facciamo della lettura una parte della nostra vita. I libri sono le cose più personali e preziose che abbiamo. Amiamoli!
A.C.

domenica 1 febbraio 2015

Filosofisica

Finalmente, cari lettori, anche l’intrigante materia della filosofia si è intrufolata nel nostro blog. Vi consiglio di mettervi comodi e di rilassarvi: spaparanzatevi sul divano o in braccio al vostro vicino, e godetevi la lettura.

Filosofia e fisica: due discipline sorellastre, destinate a interpretare la realtà in modo opposto e concorde allo stesso tempo, l’una con l’ausilio del pensiero, l’altra elaborando formule e teoremi. Nate dallo stesso ventre, ma accudite diversamente, le due materie restano tutt’oggi in correlazione tra di loro. Si completano e si “odiano” allo stesso tempo, scalzando una le teorie dell’altra. 

Chi pensa sia necessario filosofare deve filosofare e chi pensa non si debba filosofare deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l'addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloqui.” 
Con questo scioglilingua, Aristotele ribadisce come la filosofia sia necessaria persino per negare la sua esistenza. Una materia imprescindibile, ma allo stesso tempo ambigua, misteriosa, come la maggior parte dei suoi rappresentanti.
Ruolo meno emblematico lo riveste la fisica, che, nel tempo, ha saputo destreggiarsi tra i numerosi ostacoli che la separavano dal suo scopo. Basti pensare a Galileo Galilei, il quale dovette smentire le sue teorie astronomiche per non essere condannato dalla Chiesa, unico centro di sapere dell’epoca.
Nonostante la fisica risulti oggettivamente più credibile, grazie alla rigorosità e alla sistematicità con cui operano gli scienziati, credo che nessuna delle due discipline riesca a vincere sull’altra. Entrambe si pongono un dubbio, e lo affrontano. Talvolta raggiungono una conclusione, che può essere giusta o sbagliata. Ma soprattutto, entrambe ambiscono a sopravvivere nei pensieri degli uomini, affinché un giorno le teorie di Aristotele possano essere confutate da Galileo, e le teorie di un vecchio scienziato saranno apprese da un bambino.
L.C.

lunedì 26 gennaio 2015

Rudis mea erit!

La daga ricurva è impugnata saldamente dal gladiatore alla destra dell’imperatore. Lo fronteggia il gladius già impregnato di sangue del suo avversario, un mirmillone. Ma è l’enorme scudo con cui quest’ultimo si protegge la sua vera forza: il trace, infatti, si può difendere solamente con uno scudo convesso e degli schinieri alti sulle gambe. Il giovane armato di sica, però, non teme l’evidente difficoltà di attaccare il colosso dinanzi a lui, bensì incita ed esalta la folla, desiderosa di vedere il primo combattimento alle due del pomeriggio. 


Mentre la folla inneggia con cori il giovane combattente, il mirmillone Aquilone scruta il pubblico attraverso la visiera reticolata dell’elmo. Le donne sugli spalti gli ricordano Livia, la sua amata. Con la coda dell'occhio scorge il suo lanista, Tantalo Fabrizio. Vincendo, Aquilone avrebbe ricevuto la rudis, il bastone di legno simbolo della libertà. Al solo pensiero di poter tornare libero diventa euforico, e colpisce l'avversario con lo sguardo, in attesa del duello. 
La folla si acquieta fino a far cadere un silenzio surreale sull'anfiteatro. L’impavido trace non perde tempo e attacca Aquilone con un insolito colpo verso le gambe. Respinto dallo scudo, il giovane non si perde d’animo e riparte all'assalto colpendo il mirmillone al braccio destro. La manica che lo ricopre riesce solo a smorzare il colpo, e il trace continua a colpirlo senza tregua. I fischi e le urla contro Aquilone si alternano alle ovazioni per il giovane sfidante. La folla lo acclama alzandosi dalle tribune dell'anfiteatro. Il trace, però, troppo sicuro dei suoi movimenti e inebriato dal desiderio di sconfiggere il temibile avversario, si avventa verso Aquilone sferrandogli un colpo maldestro alla coscia sinistra che lo fa sbilanciare in avanti, cadendo ai piedi del mirmillone. Un boato di risate, urla e insulti si riversano sull’incredibile scena dei due combattenti: il giovane trace cerca immediatamente di alzarsi, ma Aquilone lo percuote con lo scudo impedendogli di muoversi. Ora la folla esaltata incita l’ormai vincitore a finire il suo avversario, il quale alza timidamente il braccio sinistro in segno di resa. 

“Iugula, verbera, ure!”, è l’estenuante ritornello che rimbomba nell’arena. Gli occhi grigio-blu del mirmillone si incrociano con quelli pieni d'odio del trace. Aquilone guarda il suo gladius, compagno di innumerevoli battaglie, e si ricorda gli insegnamenti appresi nella scuola gladiatoria a Capua.
“Si combatte per la folla”, pensa Aquilone mentre raccoglie la sica dell’avversario per poi scaraventarla ai bordi dell’arena. La folla urla ancora più forte, vedendo i movimenti del mirmillone. Ora Aquilone si avvicina al giovane gladiatore disarmato e lo colpisce ancora con lo scudo. Infine lo solleva da terra e accosta il gladio al collo del giovane. Il pubblico in delirio attende l’esecuzione e Aquilone grida: “RUDIS MEA ERIT!” e sgozza il trace.
L.C.

lunedì 19 gennaio 2015

Speciale per Lucio


<<Sono tre ore che state a parlare e non si è concluso niente! Io propongo delle cose: vi emozionano, vi piacciono, sì o no?>>
Con queste poche parole, il 2 giugno 1970 Lucio Battisti risponde alle critiche degli spettatori di Speciale per voi, ribadendo ancora una volta la natura delle sue canzoni.


Sotto un cespuglio di capelli neri e con la sua voce flebile ma chiara, Battisti incarnò l’essenza delle canzoni che cantava, o che provava a cantare. L’autore de “I giardini di marzo” e “29 settembre”, infatti, venne spesso accusato di non saper cantare per via della sua voce “non gradevole” e quindi di non potersi definire un vero cantante.
Al giorno d’oggi, con l’avvento dei talent show,  aspiranti cantanti hanno stupito il mondo con le loro voci superbe e possenti, che avrebbero di certo soddisfatto il critico musicale Renzo Nissim (2:52). Eppure, siamo ormai indotti a pensare alla voce come uno strumento, trascurando alcune caratteristiche fondamentali di un cantante, ovvero la capacità di saper emozionare e interpretare una canzone.
Renzo Arbore riprende il microfono e domanda al pubblico: <<È importante la voce o non è importante la voce per poter cantare?>>. Un’altra critica, un altro dubbio, ma Lucio non si scompone, non si altera, accenna un sorriso.
"L'importante è comunicare con il pubblico. Il resto conta molto poco. Il guaio è che in Italia ci sono ancora troppi cantanti alla Claudio Villa."


L.C.

domenica 11 gennaio 2015

A morte l'Amore

Oltre alle leggi metriche, oltre alle categorie storiche, oltre alle indagini teoriche, la poesia è un'arte, il mestiere di coloro che sentono il bisogno di scrivere, senza obiettivi, quasi di getto, di argomenti dall'odore sfuggevole, astratto e sfingeo. La poesia è l'artificio di chi è capace di trasformare i sentimenti, le emozioni dell'animo e i sogni in parole, a volte delicate e deliziose, altre volte aspre e intransigenti, insinuandosi nel cuore del lettore che ne congegni un senso e un significato esclusivamente personale. È questo il prodigio che compie il poeta: dà la nascita a mille interpretazioni, oltre alla sua, che ognuno conserva nel cuore e nella mente e nessuno può contestare. Perché la poesia non nasce in un momento specifico, la trovi dove c'è un uomo: oltre al pratico, al concreto, al mondo. Oltre a tutto, semplicemente poesia:

A morte l’Amore                                                          
che duole.   
A morte l'Amore
che scuote il cuore.
A morte l'Amore
che muore.
          Leonardo Capobianco

L.V.