domenica 29 marzo 2015

Duello all’ultimo bottone

Il giovane sguainò la spada nell’attimo in cui il rombo di un tuono squarciò il cielo stellato di Amburgo. Gli occhi del suo avversario scintillarono nel buio, rivelando un misto d’invidia e di odio nei confronti del suo amico e rivale. Tra i tanti curiosi radunatisi attorno alla piazza del mercato girava voce che Johann Mattheson e Georg Händel, durante l’esecuzione dell’opera “Cleopatra”, si fossero azzuffati in teatro per decidere chi avesse dovuto suonare il clavicembalo. 

Georg sentiva la guancia pulsare per lo schiaffo ricevuto poco prima dal suo maestro. Se egli non lo avesse umiliato in tal modo, forse non sarebbero arrivati a tanto. Nel mentre, Mattheson s’immaginava già che da quella vicenda oltraggiosa sarebbe scaturito certamente un danno alla sua carriera. Eppure, giammai si sarebbe lasciato umiliare dai capricci di un suo alunno e collega: l’opera era sua e sue erano le direttive, pertanto aveva tutto il diritto di imporsi come e quando voleva, soprattutto sui suoi allievi. Malgrado tutto, il finale burrascoso dell’opera aveva in qualche modo salvato i musicisti, camuffando il disastro in successo. 
La folla gremiva la piazza del mercato in attesa dell’inizio dello scontro. Si percepiva nell’aria l’inimicizia che legava i due contendenti. Un silenzio generale avvolse l’insolito palcoscenico su cui si esibivano i due duellanti. D’un tratto un violento acquazzone calò il sipario sulla scena, facendo scappare quasi tutti gli spettatori. Mattheson colse al volo l’occasione e si avventò sul giovane ancora frastornato dall’improvviso dileguarsi della folla. Georg schivò il colpo tentato dal suo maestro ondeggiando sul posto, e per tutta risposta gli restituì lo schiaffo di prima. Un lampo d’ira incendiò lo sguardo di Mattheson, che indietreggiò per ricomporsi dopo il colpo subito. L’allievo non perse tempo e lo spintonò ancora, facendogli perdere l’equilibrio. Vittorioso, ripose la spada nel fodero sotto la giubba, aspettando che il suo avversario si rialzasse. Ma con un agile movimento, Mattheson scattò in aria e colpì il disarmato Georg all’altezza del cuore.
 Lo sguardo accanito del maestro si placò di colpo. Il ragazzo ingoiò un urlo e ascoltò il suono che mai avrebbe dimenticato in tutta la sua vita: lo spezzarsi della lama contro un bottone della sua giubba. La spada s’infranse assieme alla rivalità dei due compositori, che tornarono amici. 

Un duello passionale e leggendario, che vide due uomini battersi per ciò che più di tutto amavano: la musica.
L.C.

domenica 22 marzo 2015

La Venere di Petrarca

La dea è sospinta dal soffio di Zefiro, personificazione dei venti, al quale si aggrappa Clori: i due hanno il compito di spingerla a riva. Alla sinistra di Venere, l’ancella Ora si appresta a porgerle una veste ricamata. 

Sandro Botticelli, nella Nascita di Venere, non si limita a ritrarre l’apparizione della dea, ma include diversi indizi pittorici dai quali si possono trarre le conclusioni più sorprendenti. L’opera, infatti, se letta in chiave allegorica, appare ancora più enigmatica. 
I capelli scompigliati dal vento, lo sguardo pietoso e sfuggente al tempo stesso, la carnagione chiara e luminosa: l’immagine della dea sembra riesumare la figura di Laura, la donna della quale si innamorò il poeta Francesco Petrarca, descritta similmente nel sonetto “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi”.


Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;

e ’l viso di pietosi color’ farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i’ che l’esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi?

Non era l’andar suo cosa mortale,
ma d’angelica forma; e le parole
sonavan altro che, pur voce umana;

uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch’i' vidi: e se non fosse or tale,
piagha per allentar d’arco non sana

Nel sonetto, Petrarca ricorda il primo incontro con Laura, avvenuto molti anni prima. Sebbene la sua bellezza sia ormai sfiorita, il poeta non ha mai smesso di amarla, poiché l’immagine della donna è scolpita nella sua memoria. Laura è una figura idealizzata solo nei ricordi, per il resto è umana come le altre donne. Ed è proprio su questo concetto che il poeta ci fa riflettere: l’amore è eterno se l’anima della persona che amiamo sopravvive nella memoria. Come Petrarca avvolge il ricordo di Laura con dolci parole amorose, così l’ancella Ora cerca di coprire la bellezza prorompente della dea con una veste di un colore rosso come la passione.
L.C.

lunedì 2 marzo 2015

Gli arringatori

Nel 1566, sulle rive del Lago Trasimeno, fu rinvenuta una scultura etrusca di epoca romana, la cosiddetta statua dell’Arringatore. Aule Metello era un senatore romano del I secolo a.C., qui rappresentato nell’atto di richiamare l’attenzione della folla con il braccio destro proteso in avanti. 
Una figura millenaria e immortale, quella dell'arringatore, interpretata dai più importanti capi di stato della storia come Adolf Hitler, fino ad arrivare ai leader delle rivolte di classe come Martin Luther King. Sebbene di ideali diametralmente opposti, i due personaggi riuscirono entrambi a intrattenere le folle con i loro discorsi e a condizionarne la mentalità. Entrambi divennero leader di un popolo, animati da un sogno e morti con questo. Due icone del novecento che segnarono profondamente il cammino della civiltà. Sia in vita sia dopo la morte.


Il Novecento può essere considerato un secolo ancora più rivoluzionario dei precedenti, poiché ci fu un cambiamento drastico nel modo di pensare della gente.

Come riuscì un imbianchino pazzo a scatenare il più grande conflitto della storia? Con quali armi un leader della non violenza liberò un intero popolo dalla discriminazione razziale? 
Oltre alla grande capacità oratoria che li caratterizzava, Hitler e King sapevano creare un legame unico con la folla. La loro non era solo un'abilità divulgativa efficiente, bensì un sesto senso della comunicazione, che gli permetteva di intuire e di conoscere gli stati d'animo della gente. Ma soprattutto, i due oratori tennero fede a una gestualità primordiale, coniata millenni prima della propaganda e del Black Power.
Lo sguardo dell’arringatore è mite e autorevole allo stesso tempo, adatto a sostenere la veemenza della folla. La posa è fiera ed elegante, non superba come quella di un sovrano, ma nemmeno troppo umile come quella di un plebeo. Il busto dell’uomo è piegato leggermente in avanti, come se volesse raccogliere gli sguardi dei suoi interlocutori, e trascinarli in salvo con le sue parole.
L.C.